Il lavoro è senza dubbio l’attività che ha influenzato maggiormente non solo la vita di ogni individuo nella Storia, ma anche e soprattutto il percorso stesso della civiltà umana nei millenni. Non a caso il termine stesso, dal latino labor (“fatica”), racchiude in sei lettere una sfera semantica immensa: in senso lato, il lavoro è “qualsiasi esplicazione di energia volta a un fine determinato”. Ovvero la base di qualunque realtà non sia del tutto statica. Nessuna. Il lavoro, quindi, fin dalle radici si configura come movimento, essenza, fondamento della realtà stessa, tant’è che trattarne in questi termini porterebbe necessariamente a discutere di filosofia o, quantomeno, di fisica. Non volendo rendere questo testo più pesante di quanto già non sia, atteniamoci al senso comune. Il lavoro è:
“l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”.
In questo caso poche parole ci richiamano a numerose tematiche dalla trattazione potenzialmente infinita. Per cominciare, una parola chiave: uomo. Il lavoro non come grandezza fisica alla base di tutto, ma come attività specificamente umana, attraverso la quale l’uomo ottiene un prodotto ma soprattutto costruisce la propria vita; ma di questo riparleremo più avanti. Importante è anche la consapevolezza di questa azione, compiuta non solo perché necessaria e istintiva, ma anche perché consci della sua importanza e del suo valore. Ognuno sceglie di lavorare, per quanto sia un gesto quasi obbligato, e soprattutto sceglie come lavorare. A tal proposito è da notare che la definizione menziona l’utilizzo di facoltà sia fisiche che intellettuali, sigillando definitivamente il secolare vaso di Pandora della superiorità del lavoro manuale su quello mentale, o viceversa. Ultimo di nome e di fatto, il fine: l’utilità individuale o generale del lavoro. Essa è il fulcro del nostro discorso e tira in ballo un elemento fondamentale: la politica. Quest’ultima, infatti, entra in gioco proprio quando un’attività diventa a vantaggio e nell’interesse di tutti. Vediamo, dunque, come il lavoro è giunto a tal punto.
Storia (quasi) breve del Lavoro
Agli albori della storia, il neonato essere umano, privo di strutture sociali e abbandonato alla legge del più forte, si prodigava unicamente per la propria sopravvivenza, lavorando, dunque, come individuo e per l’individuo. Successivamente, con la nascita della società, il lavoro andò a configurarsi per come è tuttora, ovvero come fonte di un’utilità non più solo individuale, ma anche collettiva. Infatti gli individui, associatisi, iniziarono a dividersi tra di loro i compiti, tenendo anche conto delle loro preferenze e attitudini. In tal modo il singolo riusciva a sostenersi tramite la propria attività, scelta consapevolmente, e contemporaneamente generava benessere per l’intera comunità. In tal modo il lavoro assunse anche un ruolo identitario, poiché in una società è il riconoscimento altrui a legittimare l’individuo. Pertanto, l’occupazione divenne professione, in grado di definire i singoli nella collettività e dar loro senso e diritto. Con l’evolversi delle circostanze, tuttavia, questo meccanismo degenerò: alcuni, desiderando il prevalere dei loro soli interessi, sfruttarono il rapporto di reciproca collaborazione, esasperandolo e facendo gravare l’intero peso del sistema produttivo su altri. Questa meccanica venne favorita da due elementi: innanzitutto la crescente complessità delle comunità, che iniziarono a necessitare di un’amministrazione centrale, eseguita da una o più persone che chiaramente risultavano in una posizione di vantaggio rispetto agli amministrati; in secondo luogo la nascita della proprietà privata, che permise il possesso da parte di pochi dei mezzi di produzione di cui avevano bisogno in molti, permettendo ai primi di ricattare i secondi. Questi due elementi, pur facilitando la deriva classista della società, non ne furono propriamente la causa, poiché essi furono la conseguenza necessaria di un mondo che stava evolvendo. La loro errata interpretazione, e non la loro comparsa, fu il motivo della virata in negativo del sistema produttivo. Infatti si assistette a una mistificazione del lavoro, non più fonte di diritto e dignità, ma sottomissione. Lavorare non significava più essere riconosciuti e accettati per la propria attività, ma venire sfruttati a vantaggio di altri. Questa situazione comportò la nascita di movimenti culturali, religiosi e sociali che, mettendo al centro la fragilità del lavoratore sfruttato, si adoperarono per garantirgli dignità e diritti. Esemplare è il Cristianesimo che, nato come religione dei deboli, lottò per istituire il giorno del riposo, la domenica, giustificandolo ideologicamente con la necessità di un periodo di tempo da dedicare alla preghiera e allo spirito. Sullo stesso percorso, a partire dal Basso Medioevo troviamo le corporazioni, associazioni di uno specifico ordine lavorativo impegnate nella tutela dei diritti dei loro membri. Esse permisero di aumentare la consapevolezza sociale del lavoratore e di tutelare alcuni suoi diritti, ma contribuirono anche ad acuire i conflitti sociali, dato che tali diritti erano garantiti solamente ai membri di quella specifica associazione. Solo successivamente, con la diffusione della stampa, la popolarità dei quotidiani e l’allargamento della partecipazione politica, la maggioranza dei lavoratori iniziò a comprendere l’importanza che rivestiva nella società. Inoltre la seconda rivoluzione industriale portò alla nuova concezione ideologica per cui era proprio il lavoro, e non la proprietà o i beni di consumo, la base dell’economia mondiale. Ogni individuo assumeva valore in base all’attività che poteva svolgere, che veniva retribuita con un salario. Questa nuova visione comportò, a partire dall’Ottocento, l’evoluzione delle corporazioni nei moderni sindacati, associazioni socio-politiche che nella teoria arrivavano a rappresentare la quasi totalità dei lavoratori, ma in particolare erano espressione della classe operaia, urbanizzata e dunque più informata. Queste nuove organizzazioni, così legittimate, poterono pretendere da parte dello Stato una regolamentazione dell’intero sistema produttivo e la garanzia di alcuni diritti inalienabili per tutti i lavoratori. Se prima le nazioni si preoccupavano unicamente del buon andamento del mercato interno, limitandosi ad intervenire come committenti o esattori, ora, per mantenere il consenso, si videro costrette a stabilire delle regole valide per tutti. Contemporaneamente la nascente globalizzazione del mercato diede vita a un’internazionalizzazione del movimento operaio. Nacquero così le Internazionali, associazioni dei lavoratori di tutti i Paesi allo scopo di stabilire obiettivi e azioni comuni. Ad esempio dalla Prima Internazionale, nel 1864, nacque l’idea di limitazione della giornata lavorativa ad otto ore. All’interno di questo nuovo spazio nacquero e presero piede ideologie politiche incentrate proprio sulla forza- lavoro, come il marxismo, e, più in generale, il lavoratore divenne punto di riferimento della Sinistra da lì fino ai nostri giorni. L’internazionalizzazione, l’azione crescente dei sindacati e il successo politico di movimenti sempre più incentrati sull’argomento (i vari Partiti Socialisti e poi Comunisti) misero il lavoro al centro non solo della Politica, ma anche dell’opinione pubblica, finalmente resa consapevole del suo valore e significato. A testimonianza dell’importanza che il tema assunse in tutto il Novecento, basti ricordare il primo articolo della nostra Costituzione, entrata in vigore giusto settant’anni fa, nel quale si afferma che l’Italia è “fondata sul lavoro”. In quegli anni, dunque, la problematica dei secoli precedenti, durante i quali il lavoro era parso solo come mezzo di sfruttamento o simbolo di povertà, sembrò in procinto di essere superata, dato che finalmente il mondo politico e la società avevano riabilitato l’attività lavorativa come fondamento della comunità e del diritto individuale, tutelandola e garantendola.
Problemi moderni, soluzioni retrograde
La situazione, tuttavia, mutò radicalmente a causa di una serie di processi i cui esiti sono tuttora in atto. Il primo di essi è la digitalizzazione che, unita alla robotica, ha automatizzato una grossa fetta del mercato del lavoro e ha reso possibile un’impressionante interconnessione tra individui, tra lavoratori e datori di lavoro e tra consumatori e produttori. In secondo luogo troviamo la recente crisi finanziaria che ha investito praticamente il mondo intero, mostrando i punti deboli di un sistema economico che rende possibile la speculazione e l’iniziativa privata senza freni. Tutto ciò ha evidenziato i limiti del sistema economico e sociale ereditato dal Novecento, e a caro prezzo. Il mercato del lavoro è stato stravolto da una precarietà dilagante, un’esigenza di flessibilità e una ricerca della specializzazione. Questo flusso continuo di mutamenti ha favorito le personalità capaci di adattarvisi velocemente, cogliendone le virate prima che avvenissero. Infine le nuove tecnologie hanno sostituito o reso superflue le mansioni poco qualificate, premiando i lavoratori specializzati. Il mondo del lavoro così mutato ha urtato violentemente contro una società non solo impreparata ai cambiamenti, com’è sempre stato nella Storia, ma soprattutto assuefatta a un dibattito politico durato un secolo riguardo l’importanza del lavoro come diritto da difendere, sicurezza immutabile e garantito per tutti. Ciò, legato al fatto che la politica non è stata in grado di gestire immediatamente i grandi mutamenti in atto, ha reso lo scontro disastroso, creando da un lato povertà e sfiducia, dall’altro profonde resistenze in parte della società, ancora legata all’idea del lavoro figlia del Novecento. Queste frizioni si sono tradotte in anarchismo o conservatorismo, movimenti entrambi anacronistici e inefficaci. Il primo ritiene che la soluzione sia esclusivamente l’abbattimento del Sistema attualmente esistente, senza proporre un’alternativa credibile. Qui si colloca una grossa fetta dei movimenti populisti che hanno recentemente invaso l’Europa e non solo, come il Movimento 5 Stelle o il Front National francese. Il secondo vuol tornare a una concezione non necessariamente sbagliata, ma semplicemente impraticabile nel mondo contemporaneo, le cui parole chiave sono: protezionismo, iniziativa privata e meno tasse per i più ricchie per le grandi aziende (bastiguardare la nuova riforma fiscale voluta da Trump). Un paradigma al passato che cozza con un mercato ormai globalizzato, una finanza cinica e dunque da controllare e Stati impegnati attivamente nel Welfare, garantito dalle imposte progressive, fatto che costituisce una delle più grandi conquiste del mondo moderno. Tra i conservatori ritroviamo la Destra reazionaria, come appunto i Republicans americani o i Tories britannici. La Sinistra in tutto ciò non è esente da critiche. Inizialmente si è anch’essa ancorata alle parole del lavoro novecentesche: lotta di classe, posto fisso, tutela indiscriminata del lavoratore, disprezzo dell’iniziativa privata e sopravvalutazione dell’intervento pubblico. Successivamente, nel proporre nuove strategie, ha mancato clamorosamente il punto o ha mal comunicato misure che, dovendo combattere problemi nuovi, sono necessariamente innovative e pertanto vanno spiegate per essere apprezzate. Questa crisi dell’intero panorama politico ha distrutto quell’opera di sensibilizzazione e presa di coscienza che aveva interessato i lavoratori nel ventesimo secolo poichè da un lato i vecchi schemi non hanno retto l’impatto con le novità, rendendo il lavoratore privo di certezze, dall’altro non si è riusciti a creare o quantomeno a spiegare le nuove soluzioni, rendendole invise anche quando efficaci. Facendo ciò, la Sinistra riformista ha sbagliato tre volte: innanzitutto fornendo facili argomentazioni alla Destra e ai populisti, pronti a tacciarla di sovversivismo e inefficacia; in secondo luogo alimentando all’interno della Sinistra stessa una frattura tra i fautori dei vecchi metodi e i sostenitori della novità; in terzo luogo, ma non meno importante, privando le nuove soluzioni di quel sostegno popolare che, se fosse stato presente, avrebbe da solo compensato tanto gli assalti dall’esterno quanto le fratture interne. Esemplare è la sinistra italiana. Dilaniata per anni dal dibattito sulle risposte ai grandi problemi del mondo moderno, lavoro in primis, una volta ritrovatasi al governo con le elezioni del 2013 essa non è stata in grado di comunicare quello che aveva in mente, attuando riforme come il Jobs Act, probabilmente efficaci (in Italia l’occupazione è cresciuta di più di due punti percentuali negli ultimi tre anni) ma certamente non comprese. Risultato? Crollo di consensi (nell’ultimo anno il Partito Democratico ha perso in media otto punti nel sondaggi), crescita dell’opposizione politic a (il centrodestra ha avuto un andamento inverso a quello del PD) e numerosi contrasti interni (basti pensare che l’attuale presidente del Senato, Pietro Grasso, è recentemente uscito dal PD per mettersi alla guida di un partito di sinistra avversario). Quello che la Sinistra e, più in generale, la Politica devono fare è affrontare le novità del mondo contemporaneo senza dimenticare il passato prossimo, ma avendo la forza di proporre soluzioni innovative e, soprattutto, di spiegarle a chiare lettere. Ignorare la realtà dei fatti e ancorarsi a un passato anacronistico è sbagliato tanto quanto fingere che esso non esista pretendendo di creare da zero un presente senza radici. Garantire i diritti e la consapevolezza dei lavoratori è importante, ma lo è anche adattare le regole al nuovo mercato del lavoro. Il compito è arduo, ma proprio per questo la Politica non è un mestiere semplice, e non può essere affrontata con soluzioni semplicistiche.
FLAVIO IELARDI
Sebastião Salgado – Kuwait: un deserto in fiamme
lavorativo impegnate nella tutela dei diritti dei loro membri. Esse permisero di aumentare la consapevolezza sociale del lavoratore e di tutelare alcuni suoi diritti, ma contribuirono anche ad acuire i conflitti sociali, dato che tali diritti erano garantiti solamente ai membri di quella specifica associazione. Solo successivamente, con la diffusione della stampa, la popolarità dei quotidiani e l’allargamento della partecipazione politica, la maggioranza dei lavoratori iniziò a comprendere l’importanza che rivestiva nella società. Inoltre la seconda rivoluzione industriale portò alla nuova concezione ideologica per cui era proprio il lavoro, e non la proprietà o i beni di consumo, la base dell’economia mondiale. Ogni individuo assumeva valore in base all’attività che poteva svolgere, che veniva retribuita con un salario. Questa nuova visione comportò, a partire dall’Ottocento, l’evoluzione delle corporazioni nei moderni sindacati, associazioni socio-politiche che nella teoria arrivavano a rappresentare la quasi totalità dei lavoratori, ma in particolare erano espressione della classe operaia, urbanizzata e dunque più informata. Queste nuove organizzazioni, così legittimate, poterono pretendere da parte dello Stato una regolamentazione dell’intero sistema produttivo e la garanzia di alcuni diritti inalienabili per tutti i lavoratori. Se prima le nazioni si preoccupavano unicamente del buon andamento del mercato interno, limitandosi ad intervenire come committenti o esattori, ora, per mantenere il consenso, si videro costrette a stabilire delle regole valide per tutti. Contemporaneamente la nascente globalizzazione del mercato diede vita a un’internazionalizzazione del movimento operaio. Nacquero così le Internazionali, associazioni dei lavoratori di tutti i Paesi allo scopo di stabilire obiettivi e azioni comuni. Ad esempio dalla Prima Internazionale, nel 1864, nacque l’idea di limitazione della giornata lavorativa ad otto ore. All’interno di questo nuovo spazio nacquero e presero piede ideologie politiche incentrate proprio sulla forza- lavoro, come il marxismo, e, più in generale, il lavoratore divenne punto di riferimento della Sinistra da lì fino ai nostri giorni. L’internazionalizzazione, l’azione crescente dei sindacati e il successo politico di movimenti sempre più incentrati sull’argomento (i vari Partiti Socialisti e poi Comunisti) misero il lavoro al centro
non solo della Politica, ma anche dell’opinione pubblica, finalmente resa consapevole del suo valore e significato. A testimonianza dell’importanza che il tema assunse in tutto il Novecento, basti ricordare il primo articolo della nostra Costituzione, entrata in vigore giusto settant’anni fa, nel quale si afferma che l’Italia è “fondata sul lavoro”. In quegli anni, dunque, la problematica dei secoli precedenti, durante i quali il lavoro era parso solo come mezzo di sfruttamento o simbolo di povertà, sembrò in procinto di essere superata, dato che finalmente il mondo politico e la società avevano riabilitato l’attività lavorativa come fondamento della comunità e del diritto individuale, tutelandola e garantendola.