Il racconto del Viaggio della Memoria nel campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau, in Polonia. Gli insegnamenti dei superstiti del genocidio sono stati fonte d’ispirazione per una consapevole riflessione sui moventi e sulla natura della Shoah.
Negli editoriali all’inizio di quest’edizione de La Lucciola accennavamo all’esperienza che io e i miei “colleghi” direttori e capiredattori abbiamo vissuto ad Auschwitz-Birkenau, insieme a oltre cento studenti provenienti da tutta Italia. Abbiamo partecipato al Viaggio della Memoria, che si tiene ogni anno in ricordo degli ebrei e degli altri deportati nei campi di concentramento nazisti. Forse non è stato esattamente un viaggio. Forse, il termine più corretto per definirlo è “percorso”: un percorso che ci ha arricchiti profondamente. Non ci siamo limitati a vedere dei luoghi e a imparare cose che non conoscevamo, ma ne siamo tornati diversi, più consapevoli, e si tratta di un cambiamento che è giusto condividere; proverò a farlo con quest’articolo.
L’arrivo a Birkenau
Siamo arrivati a Birkenau il 19 gennaio, nel pieno del mattino, dopo aver oltrepassato un’interminabile serie di boschi ricoperti di neve. Birkenau è il secondo campo in ordine di grandezza dei tre principali che compongono il complesso di Auschwitz. È un luogo molto irreale: due rotaie sperdute in mezzo a un candido nulla portano alla Rampa della morte; le ciminiere, tristemente note, che incombevano sullo sguardo dei prigionieri, ricordando loro l’infelice destino che presto li avrebbe ghermiti, sono ora ridotte a cumuli di macerie e detriti sconnessi, a mattoni frantumati un tempo parte di una torre di Babele costruita col sangue. I reticolati di filo spinato, una volta irrorati da elettricità ad alta tensione, si estendono a perdita d’occhio, separando il nulla dal nulla. Ci sono edifici dalle forme assurdamente squadrate, fra squallide baracche semidiroccate e polverose: la bianca pianura di Auschwitz è disseminata di questi cubi e parallelepipedi di cemento, anneriti dal tempo, simili ai mattoncini di un gioco di Lego dimenticato da un pezzo. Il silenzio, lì, è una presenza tangibile, un urlo muto, o meglio, è quel silenzio che segue lo spegnersi di tante urla. L’aria stessa è carica, fino ai più alti limiti dell’atmosfera, di un passato innominabile.
In occasione di celebrazioni legate alla Shoah, e più in generale quando si parla di argomenti che riguardano il dolore di altre persone, nessuno si ferma a riflettere, e nessuno si rende conto della propria ignoranza: la maggior parte della gente è tutta presa dal desiderio ipocrita di far mostra della propria incorrotta morale mai messa alla prova, o di crogiolarsi in un finto shock di fronte a sofferenze mai sperimentate sulla propria pelle. Il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau ha il potere di demolire tutto questo. Suscita nelle menti una sensazione del tutto ignota, che non ha niente a che fare con la superficialità effimera della retorica e dell’apparenza. Non si tratta, a differenza di quanto molti pensano e molti altri ostentano, di un travolgente senso di disperazione o di un’immediata e folgorante comprensione delle sofferenze dei deportati. Quello che ispira è, piuttosto, una profonda e consapevole malinconia, una tensione, una commozione interiore che si manifesta gradualmente e che spinge l’immaginazione verso territori sconosciuti della propria anima. Spinge a meditare, a porsi degli interrogativi; porta a un superiore livello di conoscenza che molti tentano di rimuovere, riuscendo a vivere senza mai accedervi: perché è un luogo che insegna l’umiltà, che incita a percepire e ad ascoltare, piuttosto che a esprimere giudizi. E noi, lì, abbiamo ascoltato le testimonianze di cui ci hanno fatto dono i sopravvissuti, le due sorelle Andra e Tatiana Bucci e Sami Modiano, l’aedo, il messaggero che ha rievocato la verità dalle nebbie del passato per portarla di fronte ai nostri occhi interiori; leggeremo dopo la sua terribile storia. Li abbiamo ascoltati a lungo, e li avremmo ascoltati ancora: perché quando si accetta la memoria, quella memoria collettiva che ci riguarda pur non appartenendo alla nostra esperienza personale, si fa un atto di altruismo e si diventa veri uomini, ed è una sensazione migliore di qualsiasi forma di beata ignoranza.
Nel profondo di Auschwitz
Auschwitz, tuttavia, ha qualcosa in comune con Birkenau: quella sensazione di “assurda follia” che trapela dalle sue costruzioni. Provando a figurarsele dall’esterno, perse nella neve, sembrano teatrini sospesi nel nulla, luoghi di una malvagità pura e semplice, senza ragione di esistere, ma allo stesso tempo lasciano intuire che non è così. La loro è un’assurdità che spinge a chiedersi perché, perché diavolo è avvenuto lo sterminio di un’intera presunta razza e di milioni di altri uomini, come si è arrivati quel punto. È un’assurdità apparente, che non permette a chi la percepisce di accontentarsi della maschera del cattivo che, come bambini, mettiamo in volto ai nazisti, perché è comoda, perché ci permette di autoconvincerci che noi mai e poi mai potremmo diventare come loro, e ci consente di ignorare certi aspetti poco gradevoli della nostra natura che in determinate condizioni vengono a galla, plasmando la stragrande maggioranza di noi in qualcosa di alieno. Se vogliamo davvero ricordare, nel nostro quotidiano vortice di disinteresse e ignoranza, non possiamo esimerci dal comprendere i meccanismi che hanno portato alla Shoah. Chissà che farlo non ci consenta di portare alla luce anche qualche inquietante aspetto della nostra attuale condizione storica e culturale…
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ALESSANDRO VIGEZZI