Ho sempre amato il noir ed il thriller nel cinema, apprezzandoli ogni volta di più come modalità d’espressione cinematografica piuttosto che come mere categorie di genere; infatti questa narrazione così fosca, soggettivizzante e introspettiva riesce a regalare degli ottimi spunti di riflessione allo spettatore, una riflessione però mediata dall’ “immediatezza” suggerita dalla componente artistica.
La società attuale, difatti, da definirsi volendo postmoderna, ci mette di fronte ad una lunga serie di interrogativi potenti e angustianti, che variano dal tema dell’identità a quello della percezione della realtà, senza trascurare la natura oscura del comportamento umano. Grande e precoce interprete su pellicola di questi grandi interrogativi è stato, tra gli anni ‘40 e ‘70 del secolo scorso, il Maestro Alfred Hitchcock. Si tratta infatti del cineasta che ha contribuito a plasmare l’identità stessa del thriller, per certi versi anche “horrorizzato”, e senza il quale oggi non avremmo una buona metà dei più importanti registi esistenti. Ma qual è, alla fine, tale incredibile rivoluzione portata avanti da Hitchcock?
Non c’è una risposta semplice a tutto ciò, come dimostrano le innumerevoli ore di durata dell’intervista che il regista di Psycho rilasciò a François Truffaut, in cui cercava di sviscerare con precisione chirurgica l’impostazione e lo scheletrodelle sue pellicole. In ogni caso, la caratteristica più importante del maestro, almeno a livello registico, rimane la manipolazione dell’audience. Hitchcock,come un perfetto burattinaio, ci svela specifici dettagli della storia molto lentamente, silenziosamente, e lo fa per ingannarci, per impedirci di prevedere la direzione dell’evoluzione del racconto, per lasciarci continuamente stupiti e turbati di fronte alle svolte brusche e incredibili del suo storytelling sanguigno. Ad esempio in Rope, o Nodo alla gola, il regista fa di tutto per far empatizzare lo spettatore con l’efferato delitto dei due giovani padroni di casa, ne suggerisce la possibile salvezza, solo per disilluderlo con l’investigazione finale del Professor Rupert; la potenza della suspense è data dall’effettiva credibilità che l’audience vede nelle azioni e nel controllo della situazione da parte dei personaggi, e tutto questo è reso possibile solo dal raffinatissimo gioco di macchina da presa che Hitchcock riesce a portare avanti protraendo, nel caso di Rope, sostanzialmente lo stesso piano- sequenza per un’ora e mezza, suggerendoci a livello inconscio per chi parteggiare e perché, solo per distruggere la nostra aspettativa un secondo più tardi. Il Maestro imposta la crescita strutturale dei suoi film sul nesso profondissimo ma invisibile che c’è tra l’approfondita psicologia dei suoi personaggi e la psicologia dello spettatore, continuamente ingannato e messo fuori strada dal regista, come in Rear Window, o La finestra sul cortile, in cui il punto di vista del fruitore è completamente soggettivizzato e sovrapposto a quello del protagonista; vediamo ciò che vede il protagonista stesso, tra l’altro bloccato in casa, ascoltiamo solo ciò che lui sente, ed iniziamo dunque a ragionare come lui, solo per disilluderci quando la camera di Hitchcock sposta la sua attenzione sull’amico poliziotto, che non si lascia sedurre dalle fantasticherie omicide del personaggio principale. A quel punto sconfessiamo il nostro fotografo protagonista, solo perché indirettamente Hitchcock ci ha suggerito di farlo, per poi sorprenderci con un finale nel quale, invece, tutte le sue angosce si rivelano vere. Ed è proprio questa impossibilità di “leggere” il film, questa quasi perversa tortuosità dell’impalcatura narrativa a creare quel muro imponente di suspense che ci lascia davvero col fiato sospeso e bisognosi di comprendere di più, di scavare a fondo per arrivare ad un appiglio di verità a cui aggrapparci.
Alfred Hitchcock ci ricorda che non siamo noi i giocatori degli scacchi su pellicola e che lo sviluppo del racconto non è in nostro potere, così come non lo è, alla fine, la realtà. Anche nella realtà, infatti, noi abbiamo solo un’idea limitata della situazione in cui ci troviamo e ci concentriamo ognuno su particolari diversi, senza mai essere in grado di dare uno sguardo più ampio al quadro generale; siamo costantemente ingannati dalla nostra stessa percezione dell’esistente che ci indica dei confini arbitrari sulle opposizioni del mondo, mentre non ne abbiamo una reale conoscenza.
Altro interessante espediente lo troviamo in Psycho, nella focalizzazione iniziale del regista sul personaggio femminile di Marion, che seguiamo nella sua ascesa verso “peccati” sempre più aspri che sembrano tutti collegati al denaro, quando invece, ad un terzo del film, la sua figura viene liquidata e l’audience si ritrova a seguire le vicende di Norman. Non c’è più un protagonista, c’è solo una figura a cui lo spettatore presta la sua attenzione: lo fa per cercare di venire a capo della tenebrosa rete distruttiva in cui si è impelagato, per utilizzare più o meno le parole dello stesso Norman. Ma allora perché Hitchcock perde tempo con il personaggio di Marion? La riposta è presto data: perché Marion e Norman appaiono al cineasta come due entità fuse insieme, due doppelgänger inscindibili proprio come il giorno e la notte (impressione che, di primo acchito, parrebbe assurda a chiunque, ma che rappresenta proprio una forma di geniale imprevedibilità e manipolazione dello spettatore). Quindi, nell’opera del Maestro, il cinema diventa anche un medium di riflessione sulla struttura profonda della psicologia dell’uomo, e la cosa pazzesca è che (a differenza di Sigmund Freud) Hitchcock riesce a farlo mentre intrattiene un pubblico con gli occhi incollati allo schermo!
Nello stesso Vertigo, per citare un altro dei suoi film più noti, ritorna la soggettivizzazione dell’opera cinematografica; l’audience si fonde con il protagonista John Ferguson perdendo la propria identità, e l’intera pellicola non è altro che un enorme punto interrogativo che risponde alla domanda: “Chi sono io?”; le vertigini nel film non sono altro che l’esternazione dell’ansia derivante dalla precarietà della condizione psicologica dell’uomo contemporaneo, che ha la capacità di farsi sempre più domande trovando sempre meno risposte.
Per concludere, non si può far altro che riconoscere la genialità rivoluzionaria di Alfred Hitchcock, comprendendo come il suo sia un cinema assoluto, in cui il genere si mescola con la sostanziosità della visione artistica, in cui tutto ha un significato ben preciso, dalla cromaticità della fotografia alla costruzione geometrica dell’immagine, in cui la forma si trasforma irrimediabilmente in sostanza (e viceversa) e in cui, soprattutto, lo spettatore ritorna pura pedina.
JACOPO SORU