Prima di tutto perché ne possiamo trarre un ottimo insegnamento. È sufficiente porsi la domanda: cosa provano di più le persone che hanno occupato Hong Kong? Una profonda, idealistica tensione politica, o la soddisfazione di essersi guadagnati delle vacanze extra? Non penso possa esserci il minimo dubbio sulla risposta…
C’è però un altro motivo per cui quel piccolo territorio sulla costa del Canton, nella Cina Meridionale, è così affascinante: perché è, in tutto e per tutto, un’eccezione. A cominciare dalla sua storia.
Come al solito, cercherò di descrivere gli eventi nella maniera più aderente al vero che mi riesce, e basandomi per la parte tecnica sulle conclusioni degli addetti ai lavori. Di mio troverete riflessioni “più ampie”, e una partecipazione emotiva che non riesco a non provare.
E’ per queste ricchezze che Hong Kong è e sarà una delle metropoli chiave per l’umanità nel futuro, e questo a prescindere da ciò che accadrà. Il suo vero nome, in cinese, è Xianggang, che significa letteralmente “porto profumato”. Se è vero che il denaro non puzza… Tutta quest’abbondanza, inoltre, ha determinato una distribuzione delle risorse non così iniqua come di solito avviene da quelle parti. E quando, nel 1997, Sua Maestà Elisabetta II decide di firmare la restituzione del suo piccolo gioiello alla Cina, sua legittima proprietaria, gli accordi presi sembrano fatti apposta per garantire uno splendido avvenire agli abitanti del “porto profumato”.
Uno Stato è influenzato da tutti i poteri presenti nella società su cui è costruito, no? Suona abbastanza logico. E suona altrettanto logica la seguente domanda retorica: può forse non essere influenzato da quelli forti? Un potere, per essere forte, non può non agire spesso e volentieri al di fuori della morale e della legge (Machiavelli docet). E, quando lo fa, le sue azioni devono rimanere nascoste…
Sto tracciando il preciso ritratto, valido tuttavia per svariati soggetti, di quelli che sono i poteri forti di Hong Kong. Gli uomini forti, le cui ricchezze fanno rifulgere quella città. I più onesti sono speculatori finanziari. I peggiori vanno dai boss della mafia cinese a trafficanti d’armi e di droga provenienti da ogni contrada. La crème de la crème di ogni paradiso fiscale. Ma anche di altri paesi in teoria meno “tolleranti”, compresa la nostra bella città. A causa dello spietato contesto dove se le sono guadagnate, esse sono direttamente proporzionali al numero di crimini commessi per accumularle e al grado di anonimato in cui questi uomini si mantengono. La verità è che non c’è alcuno Stato che non abbia un legame forte e duraturo con simili individui, anche se solo ogni tanto viene fuori lo scandalo e l’opinione pubblica si infuoca. Essi dispongono di ricchezze tali da comprare intere nazioni, numerosi agganci e schiere di uomini fedeli, pronti a far rispettare in mille modi il loro volere. Ai politici conviene appoggiarli, e lo possono fare con scarse probabilità di essere scoperti da gente estranea a quel giro. Sono la scorza “mediatica”, e spacciabile per onesta, di questi homini boni. Addirittura, anche se solo in certi paesi, (e ogni riferimento a fatti, persone e cose è puramente casuale) possono mantenersi al potere anche do
I problemi del “porto profumato” hanno origine dal genere di potenti sopra descritto, i quali fanno ben di più del semplice piazzare maree di loro collaboratori nell’amministrazione locale: finiscono per fondersi quasi completamente con essa, rendendo la corruzione all’ordine del giorno.
Questa situazione è antecedente al fatidico 1997. Perché, quando il nuovo attore cinese irrompe sulla scena, la congiuntura cambia in meglio, dal loro punto di vista… Ragioniamo: sulla scacchiera ci sono tre pedine, ovvero i grandi investitori – con relativi politicanti – la Cina e il popolo di Hong Kong . Perché la Cina si interessa così tanto a quella città-stato? E’abbastanza facile rispondere: dato che l’ex Celeste Impero ha un economia “comunista” (chiamiamola così…) e l’aspirazione neanche tanto segreta di essere la più potente delle nazioni, i rispettabilissimi signori al suo comando hanno bisogno di grandi piazze finanziarie per confrontarsi con un mondo capitalista. Ai grandi investitori di Hong Kong, invece, conviene avere spalancate le porte della più grande economia del pianeta, in cambio della loro collaborazione. E se questo ragionevole accordo comporta delle ingiustizie per la terza e derelitta pedina, poco importa.
Vengono promulgate una serie di leggi volte al profitto dei primi due soggetti. In ambito economico, l’individual visit scheme, a favore degli acquirenti cinesi, e altre norme a favore dei costruttori – i quali sono ovunque il piatto forte della malavita – hanno causato la rovina della classe media, la distruzione di interi quartieri – soprattutto quelli tradizionali – e delle ultime zone rurali. Lo
Alla Cina, però, tutto questo non basta. Deve avere il pieno controllo di una città così determinante per i suoi piani. Il governo locale, seguendo le direttive di Pechino, inizia a pianificare l’introduzione di diavolerie come l’ “educazione patriottica”, eufemismo per dire “scuola imbevuta dell’ideologia molto strumentale del governo cinese, con annessa censura culturale, controllo dei mezzi di informazione e limitazioni alla libertà di espressione”. Negli Hongkonghesi inizia a nascere una profonda inquietudine. Loro, infatti, non sono solo parte integrante del mondo culturale cinese, e probabilmente più della Cina stessa, il cui governo ha sacrificato persino la cultura tradizionale sull’altare dei suoi interessi. Hanno anche sviluppato una forte identità occidentale, e un altrettanto forte attaccamento per quella libertà che (come ha detto il presidente di Taiwan, anche se forse non solo per nobiltà d’animo, vista la sua alleanza con gli Stati Uniti…) non deve essere monopolio dell’Occidente, ma patrimonio di tutta l’umanità. Quello che gli abitanti di Hong Kong iniziano a temere sempre di più è una deriva autoritaria “alla cinese” della loro società.
Un sogno, vero? E’ il sogno degli artefici della rivolta, che è riuscito a passare anche alle masse, vista la combinazione con situazioni di malessere molto meno “filosofiche”, e la percezione di un governo sempre più alieno rispetto a loro.
Ci sono diversi e interessantissimi motivi per cui l’effetto di questo sogno è stato così esplosivo, quando i giovani – ma non solo – sono scesi in piazza. Per esempio: in un paese dove gli scioperi e le proteste sono rarissimi, per non dire inesistenti, fare un’occupazione di diversi mesi fa notizia e fa effetto.
Nonostante le migliaia di sfolgoranti luci elettriche che illuminano le notti di Hong Kong, il dedalo di vicoli all’ombra di quegli immensi edifici è per larghi tratti oscurissimo, e pullula di luoghi ideali per tendere agguati a individui isolati o a piccoli gruppi. Gli assalitori sono professionisti: fanno del male a pochi, tanto e gratuitamente, per far nascere il terrore in molti. Inafferrabili, emergono dal buio, attaccano e spariscono. I manifestanti però resistono, nonostante lo scarso supporto da parte della comunità internazionale, e il conseguente entusiasmo segna l’apice della
Ma il governo di Hong Kong non cede. Né tantomeno cede il governo di Pechino: se così facesse, incoraggerebbe una tale marea di episodi simili sul continente… Dal punto di vista loro e dei vari uomini potenti alle loro spalle, gli occupanti possono strepitare quanto vogliono: le leve di comando sono sempre in mano loro. I risultati non arrivano. I manifestanti perseverano, ancora e ancora, e i risultati continuano a non arrivare. Almeno non quelli che speravano loro: infatti iniziano a perdere consenso, perché l’occupazione, anche se civilissima, causa comunque una flessione delle attività commerciali difficilmente tollerabile in tempi di crisi. Nel frattempo la polizia si è riorganizzata, e supportata dagli uomini delle triadi, inizia a esercitare una seria pressione, pur senza sporcarsi troppo le mani.
Devono essere molto umani i pensieri che iniziano a ricorrersi nella testa dei giovani in piazza: “A che scopo continuare con la nostra rivolta se non porta a nulla?” “No, bisogna resistere ancora, e alla fine il governo cederà…”. Ma il governo non è minimamente toccato, e non cede. A che scopo allora, sopportare anche la violenza dei malavitosi?
Ora a Hong Kong è tornata una quiete inquieta. Chi è sceso in piazza non si rassegnerà tanto facilmente, nonostante la delusione. Ma nemmeno il governo demorderà. E, alla luce di quello che è accaduto, non credo possano esserci molti dubbi su chi sia più forte.
Da questo marasma emerge un bruciante interrogativo: era davvero il metodo giusto per conseguire i propri obiettivi? Lì nel “porto profumato”, il “metodo Occupy” è stato portato al massimo livello di efficacia. Eppure, come tutte le altre proteste ispirate a quella del 2011 a New York, ha ottenuto poco.
Persino quando l’occupazione investe tutta la città, ed è condotta con i metodi più efficaci, appoggiata dalla stragrande maggioranza della popolazione e soprattutto sentita da tutti coloro che vi partecipano, persino allora chi ha potere è sempre più forte.
Ci si può chiedere a cosa servono parole, idee e convinzioni di fronte a tutto questo. A cosa servano proteste e manifestazioni. Non credo si possa seriamente pensare che siano completamente inutili. Di sicuro, un governo ci pensa due volte prima di agire in maniera contraria alla volontà della gente, che in questi modi si mostra nella maniera più diretta finora conosciuta. Tuttavia, come si è potuto vedere, questo non basta. Di sicuro, se vi partecipano un gran numero di persone motivate, servono a creare un duraturo contesto politico, sociale, e anche culturale. Se però ad avere il potere è gente estranea a questo contesto, allora neanche questo è sufficiente.
Ora, premesso che la corruzione e l’oppressione ci sono sempre stati e sempre ci saranno, per affrontarle servono uomini che le combattano sul loro stesso livello. La rivolta di Hong Kong non ha infatti affrontato quel mondo sommerso che doveva sconfiggere, almeno nelle intenzioni dei suoi ideatori. È su due livelli che bisogna combattere per la libertà. Chissà quanti uomini combattono sottotraccia questa battaglia. Ma non possono fare molto, se la mentalità della gente fra la quale vivono non è come quella che gli Hongkonghesi hanno dimostrato di avere.
C’è una cosa che non ho ancora detto di questa rivolta: il suo nome. “La rivoluzione degli ombrelli”. Gli stessi ombrelli che gli occupanti hanno usato per difendersi dal lancio dei lacrimogeni e dal caldo soffocante, e che hanno anche un significato simbolico: la difesa del singolo individuo da un ambiente ostile. Forse ognuno di noi deve costruirsi l’equivalente – mentale, culturale e non solo – di un ombrello.
In quanto a mentalità, l’Europa sembra aver già dato da un bel po’ di tempo, e quella che si sta delineando come la società del futuro non sta contrastando il processo di inaridimento politico, economico e culturale. E non è così solo da noi. Per fortuna che nel mondo vi sono ancora eccezioni, come Hong Kong. L’ideogramma cinese per dire “crisi” è composto da due ideogrammi, che significano pericolo e opportunità. E chissà che, proprio da quel contesto di crisi, non esca fuori qualche uomo di spessore, verrebbe quasi da dire un eroe, in grado di affrontare i tanti pericoli che la libertà delle persone di tutto il mondo corre sempre di più.
ALESSANDRO VIGEZZI