Il Doppio “Egon” di Schiele

Inconsapevolmente catturati in atteggiamento cogitabondo dal sensore fotografico, saremmo quasi pronti a rinnegare la nostra stessa immagine: immagine che ci viola, possedendoci nel nostro essere invisibile, completamente soli, in assenza degli altri e di noi stessi. Ci ritroviamo di fronte ad un altro “noi”, paradossalmente moltiplicati e scissi, contemporanemante “noi stessi” ed “un altro”, in una convivenza coatta che ci affascina ed intimidisce, strazia e stupisce.

Per Egon Schiele la fotografia, negata come forma d’arte indipendente, era tutt’al più un efficace mezzo di composizione scenica, come già nella tradizione impressionista, che gli permetteva, soprattutto nell’autoritratto, di “inquadrarsi” in modo significativo.

Con sfondo la finis Austriae e la Vienna di Freud (che nel 1900 aveva già pubblicato L’interpretazione dei sogni), Schiele fece della propria vita (1890-1918) una bruciante parabola umana, metafora ed interpretazione del nascente movimento espressionista: “L`artista è l`espressione della sua epoca, rivela un frammento della propria vita. E lo fa sempre attraverso una profonda esperienza vissuta”: le parole stesse dell’autore rivelano l’importanza che egli attribuiva alla propria vocazione di artista come “creatore di se stesso e per se stesso”, motivo per cui il “Neukunstgruppe”, dal lui fondato nel 1909 in sodalizio con ex compagni dell’Accademia di belle arti, non ebbe lunga vita e Schiele elaborò individualmente una poetica estetica estremamente personale.

La sentita esigenza della percezione di “sé” nell’autore, tuttavia, non crea un’identità ma una persona che è “dividuo”, separabile, affiancato dal proprio alter ego, il cui corpo è unicamente materia di espressione spirituale. Un corpo mutilato, secco involucro della visione abituale dell’uomo, che è dunque rappresentato in pose disarticolate, spigoloso e percettivamente duro, attraverso una linea irrompente e provocatoria che si allontana definitivamente dall’esasperato estetismo dello Jugendstil (per quanto Schiele non ripudiò mai la propria originaria ispirazione che prendeva le mosse dal Secessionismo viennese ed in particolar modo da Klimt). L’autoritratto è innegabilmente anche momento di puro innalzamento narcisistico e affermazione di sé, in un percorso di autoanalisi che l’artista intraprese a seguito della morte del padre, evento che lo proiettò, sin dall’età dei quindici anni, nel mondo degli adulti.

Autoritratto doppio è un’opera del 1915, anno del matrimonio con Edith Harms e dell’arruolamento per il servizio militare. La composizione appare “ingannevolmente semplice”: Schiele rinuncia completamente all’elaborazione dello sfondo, sul quale le linee fragili ed irregolari si stagliano tuttavia sicure e controllate, tracciate da una mano sciolta  “quasi che queste venissero disegnate dall’articolazione della spalla” (H. Benesh). I corpi ed i gesti delle due figure sono messi a nudo in una prospettiva assente, deformati da angoli visuali “inventati”. Privo di un contesto narrativo il contenuto della rappresentazione trova espressione nell’assoluta essenzialità delle linee che creano una superficie frazionata, labile e fluttuante all’interno di uno spazio vuoto colmato dai dubbi e dalle inquietudini.Immagine

Il ricco registro espressivo è poi completato nella sua drammaticità grazie ad un colore rosso-arancio dalla valenza emotiva decisiva, che concede piena estrinsecazione ai vari e contraddittori sentimenti umani. Lo sguardo penetrante, rivolto direttamente all’osservatore, della figura a destra rivela lo studio attento da parte dell’autore della psiche umana, profondamente influenzato da Nietzsche e Charcot: quest’ultimo aveva infatti individuato nella manifestazione della sindrome isterica un’esperienza esteticamente bella. Isterismo proprio dell’artista decritto da Nietzsche (1888), che lo rende imprevedibile e patologico nell’interpretazione drammatica di ogni evento vissuto, anche se irrilevante. Artista che si ribella per mezzo di un’espressività violenta alla società borghese bigotta ed ipocrita che ignora, assuefatta agli espedienti estetici, i conflitti sociali che affliggono un’epoca di crisi.

Ma la “doppiezza” contraddittoria di Schiele risiede nel suo alter-ego, abbandonato dolcemente sul capo dell’altro “sé”, lo sguardo perso in alto, nel vuoto: è lo Schiele che nel 1915 abbandonò la sua Wally (amata compagna,  nei quattro anni di convivenza aveva posato numerevoli volte per l’artista che la riteneva la sua modella preferita) in nome del desiderio di una vita borghese e regolare assieme ad Edith. E’quello stesso Schiele che giovane e modesto ritagliava colletti di carta che dessero una parvenza di eleganza alle larghe camicie ereditate dal padre ferroviere. Autoritratto doppio appare quasi sottolineare la contraddizione tra il giovane dandy e l’artista ascetico, tema già esplorato da Maurice Guilbert nel fotomontaggio del 1890 Monsieur Toulouse dipinge Mounsieur Lautrec Monfa rappresentando la scissione tra pittore e aristocratico in posa per essere ritratto.

Tuttavia Schiele sembra allo stesso tempo giustificare tale contraddizione in virtù del concetto figurativo per cui la scissione delle molteplici parti dell’io si ricompone in modo visionario. Il “doppio” inteso anche come “coppia” nell’ultimo Schiele rivela, nel rifiuto della solitudine, la ricerca dell’agognata, difficile, forse impossibile serenità.

 

 ANNA PARLANI

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